Il Teatro dell’Oppresso è un metodo teatrale nato negli anni ’60 in Brasile grazie al regista e drammaturgo Augusto Boal.
La sua intuizione è stata quella di trasformare il teatro da semplice spettacolo da guardare a strumento di partecipazione, riflessione e cambiamento sociale.
Boal si ispirò alle teorie di Paulo Freire sull’educazione come pratica di libertà: così come la scuola può diventare un luogo di coscientizzazione, anche il teatro può essere uno spazio in cui le persone prendono parola, si riconoscono e immaginano alternative alla realtà che vivono.

L’evoluzione del metodo
Inizialmente il Teatro dell’Oppresso nasce come teatro politico e popolare rivolto a contadini, operai e comunità marginalizzate, per aiutarle a esprimere le proprie condizioni di oppressione.
Con il tempo, si è diffuso in tutto il mondo, adattandosi a contesti diversi: scuole, associazioni, carceri, aziende, movimenti sociali, gruppi teatrali.
Boal e i suoi collaboratori hanno sviluppato diverse tecniche che oggi fanno parte del metodo, tra cui:
Teatro-Forum: uno spettacolo in cui gli spettatori diventano “spett-attori”, entrando in scena per proporre soluzioni ai conflitti rappresentati.
Teatro-Immagine: i corpi raccontano situazioni di oppressione attraverso immagini statiche, senza parole.
Teatro-Invisibile: performance realizzate in spazi pubblici senza che il pubblico sappia di assistere a un atto teatrale, per stimolare riflessioni spontanee.
Arcobaleno del desiderio: tecniche per esplorare desideri, emozioni e oppressioni interiori
Teatro giornale: tecniche per commentare e reintepretare l’attualità
Teatro legislativo: tecniche per comprendere il sistema legislativo che ci regola.
Oggi il Teatro dell’Oppresso è praticato in più di 70 Paesi e continua a evolversi come strumento artistico, pedagogico e politico, usato per affrontare temi come i diritti umani, l’educazione alla pace, la giustizia sociale, la parità di genere, l’inclusione e la cittadinanza attiva.
La sua forza
Il cuore del Teatro dell’Oppresso è l’idea che tutti possono fare teatro e che attraverso il gioco, il corpo e l’immaginazione sia possibile prendere consapevolezza delle oppressioni che viviamo e allenarci ad agire per trasformarle.
Non è un teatro che chiede di “recitare bene”, ma un teatro che chiede di mettersi in gioco.
È un’esperienza che non lascia indifferenti: rompe la distanza tra attore e spettatore, creando un processo collettivo di apprendimento, relazione e cambiamento.
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